• on 11 Aprile 2019

L’ultima cena…lo sapevi che?

Ultima cena: la Parola, Verbo, che si fa Dono per noi

nel rendimento di grazie, eucarestia, che rinnova il Dono che è Gesù ogni volta che viene celebrato  

“Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la Vittima di Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: -andate a preparare per noi la Pasqua, perché possiamo mangiare- Gli chiesero: -dove vuoi che la prepariamo?- ed Egli rispose: – appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua. Seguitelo nella casa dove entrerà e direte al padrone di casa: il Maestro ti dice: dov’è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà una sala al piano superiore, grande e addobbata, là preparate.- essi andarono e trovarono tutto come aveva loro detto e preparano la Pasqua.”

La stanza al piano di sopra, il cenacolo: Leonardo conosceva bene le Scritture quando iniziò a dipingerlo nel refettorio dei Padri Domenicani all’interno del convento di S. Maria delle Grazie a Milano tra il 1493 e il 1494. Ancora di più le conosceva il Priore Bandello che, dall’inizio, ha seguito il lavoro dell’artista, per  non dimenticare, inoltre, che i Domenicani sono stati anche i responsabili della commissione teologica per la costruzione del Duomo di Milano.

La stanza al piano di sopra:  Leonardo dipinge il suo capolavoro come se fosse appunto una stanza che non appartiene al piano di chi guarda, ma ad un piano superiore; il termine latino coenaculum e greco anagaion, compare nei Vangeli associato al termine stratum latino e estromenon greco, ed è traducibile con “provvisto di tappeti”, tappeti millefiori che richiamano il paradiso terrestre, come se un Hortus conclusus abbracciasse il refettorio dell’ultima cena, sono inoltre un riferimento alle virtù cristiane e alle decorazioni dei ceri pasquali. Non ha scelto lui il soggetto, era infatti un obbligo per i Domenicani sedersi, in perfetto silenzio,  a mangiare nel refettorio contemplando un’ultima cena (in quanto istituzione dell’Eucarestia) ed una crocifissione (inizio del dono dato e preludio alla vittoria sulla morte della resurrezione); era come partecipare ogni volta a quel mistero. Ma non è solo un dipinto, per prima cosa Leonardo “sfonda” la rigidità del muro e dello spazio per creare una sorta di prolungamento del refettorio stesso. Per poter realizzare ciò, fa ristrutturare l’intero refettorio rinnovandone le misure che risultano essere 8,87 metri nei lati piccoli e 35,48 nei lati lunghi; così l’ambiente reale è formato da quattro cubi e su questo rapporto studia la prospettiva di questa illusoria stanza dentro la quale inserire i suoi personaggi in un perfetto dialogo con i Padri seduti a tavola. L’intento è molto più profondo e duplice: da una parte rendere il più possibile reale e sempre attuale l’evento storico dell’ultima cena; dall’altro è quello di preparare uno spazio dove porre la figura del Cristo che, così, diventa origine e termine di tutte le linee prospettiche, ma soprattutto origine e termine dell’evento salvifico che si celebra nell’ultima cena. 

 La tavola: il dipinto è posto sulla parete a due metri circa di altezza per cui, per noi che lo osserviamo dal basso, è impossibile ed irreale riuscire a vedere così bene ciò che c’è sulla tavola. L’artista l’ha dipinta  come se stesse a metà tra lo spazio da lui creato alle spalle e lo spazio vero del refettorio dei frati. Ha voluto che questa fosse la quarta tavola del refettorio stesso: sotto alla parete della crocefissione si trovava la tavola dei Superiori, parallele alle pareti lunghe quelle dei padri domenicani quindi, ogni volta che essi mangiavano era come se avessero tra i commensali lo stesso Gesù con gli Apostoli. Anzi, molto di più: era Gesù stesso che ogni volta invitava i frati alla sua tavola dalla quale offriva quel pane e quel vino: lui stesso. È rovesciata verso di noi, in disordine, come se la natura stessa partecipasse all’angoscia del momento.

Possiamo notare tre piatti sulla tavola: il primo, posto davanti a            Giovanni, contiene un pesce, molto probabilmente un’anguilla arrosto, piatto tipico della corte rinascimentale lombarda ma anche rimando al simbolo cristologico paleocristiano del pesce le cui iniziali, in greco, ci rimandano a “Gesù Cristo figlio del Dio salvatore”.

 Il secondo, posto dalla parte opposta, contiene della carne,    probabilmente dell’agnello arrosto, simbolo del sacrificio pasquale.

Ma davanti a Gesù il piatto è

vuoto, è lo svuotamento del Cristo che lo porta a donarsi completamente agli uomini. Davanti a lui la tavola è ordinata, come se tutto partecipasse a quel gesto sublime di dono di sé che il Maestro sta per compiere proprio nel segno del pane e del vino e di cui tutti gli altri sono ancora inconsapevoli ed ignari. 

  Le mani di Gesù indicano tutta la tensione del momento, con la destra, dalla parte del colore rosso della veste simbolo dell’umanità di Cristo, e contrapposta a quella di Giuda, notiamo una tensione di rabbia, la mano è più scura ma il volto è girato, con gli occhi bassi simbolo di accettazione,  verso la mano destra, aperta e chiara che sembra indicare il pane ed il bicchiere vuoto davanti a lei; il pane ed il vino: il corpo dato ed il sangue versato. Tutto è ordine, calma, isolamento, è già l’anticipazione dell’orto degli ulivi. Se dovessimo tracciare una linea che, partendo dalla testa di Cristo, riuscisse ad unire le due mani, riusciremmo a formare un triangolo perfetto, equilatero. Leonardo ha dipinto Gesù racchiudendolo in un triangolo perfetto, simbolo della Trinità. La stessa perfezione del triangolo richiama la perfezione, l’equilibrio, la bellezza di Dio. È un volto dolcissimo, giovane, ben incorniciato nei capelli chiari, la bocca sembra sussurrare “uno di voi mi tradirà” ma anche l’Amore estremo che lo porterà ad accettare la morte in croce per darsi completamente a ciascuno di noi sconfiggendo la morte per sempre.

  I suoi occhi tristi sono trasparenti e limpidi, sono occhi che ancora oggi ci parlano del suo amore immenso con cui ci ha amato e ancora ci ama, ma che ha amato anche colui che lo ha tradito. Se potessimo avere ancora l’opportunità di vedere sotto il tavolo, noteremmo come i piedi di Gesù formavano una croce. Dietro al suo capo notiamo una finestra aperta che è esattamente il doppio delle due laterali, si intravvede un paesaggio della Brianza lombarda al tramonto, ma che è anche già un aurora con il sole nascente, appena accennato e oggi molto rovinato, che forma un’aureola intorno al capo, l’unica presente nel dipinto. Di fianco a Gesù, nel lato del mantello color azzurro, simbolo della divinità del Cristo, per cui Leonardo ha usato il lapislazzolo per creare il colore, notiamo che l’apostolo Tommaso indica il cielo, la scelta già fatta. È anche il dito con cui toccherà la piaga del costato quando Gesù apparirà nel cenacolo dopo la risurrezione. E se giriamo frontalmente il corpo di Giacomo, le sue braccia aperte formano una croce. Analizziamo ora i gruppi da tre con cui Leonardo ha volutamente raggruppato i dodici apostoli ed il momento che Leonardo ha scelto di rappresentare: l’annuncio del tradimento. Giacomo allarga le braccia, è la croce su cui Cristo sarà innalzato per la redenzione del mondo. La croce che deve essere presa da chi vuole seguire il Signore, anche fino alla morte. E lui, figlio di Zebedeo, fratello di Giovanni, sarà il primo degli apostoli a ricevere il martirio. Si gira velocemente, rimanendo a bocca aperta, spaventato, con lo sguardo inorridito da ciò che ha appena udito. La mano sul tavolo è sospesa, in attesa di capire cosa realmente stia accadendo. Filippo: dietro a Giacomo, si allunga verso Gesù e, allo stesso tempo, porta le sue mani al petto, ad indicare l’amore immenso verso il Maestro. Ha un profilo dolcissimo dell’innocente che teme il male che potrebbe fare involontariamente.  Allo stesso tempo, però, il gesto di Filippo comunica anche un’intima e incondizionata accettazione della volontà divina, una sottomissione al disegno che sta per compiersi. Richiama molte immagini di Maria nell’annunciazione, l’accettazione nell’obbedienza del Mistero per la salvezza di tutti. I Vangeli ne parlano come di un giovane dal cuore puro, ed ecco il suo cuore indicato nel bellissimo gesto di quelle sue mani che si piegano al centro del petto per dichiarare fedeltà e amore incondizionato. Dalla parte opposta troviamo Giovanni, Pietro e Giuda. I Vangeli raccontano che Giovanni aveva la testa appoggiata al Maestro, qui Leonardo lo sposta facendolo chiamare da Pietro. In questo modo si crea un ulteriore triangolo equilatero tra lui ed il Maestro che si
viene a trovare sempre più solo nella Sua scelta. È già il testimone sotto la croce e della risurrezione, non è un caso che indossi un mantello color rosa, simbolo dell’aurora e, quindi, della risurrezione.   Giovanni, il giovane discepolo al quale Gesù affiderà sua Madre al Golgota ha il viso delicato, privo di barba, che esprime amore e forte attaccamento a Gesù; le sue mani sono incrociate in un gesto ripreso dalla statuaria funeraria antica che esprime afflizione e tristezza nella consapevolezza del momento. Pietro che, con irruenza tipica del suo carattere, chiama Giovanni a sé in una torsione del busto che lascia intravvedere il coltello che userà poco dopo nell’orto degli ulivi. Fedele al Vangelo, Leonardo li mette testa a testa tradendo i sentimenti dell’apostolo più anziano, irruente e focoso, ma saranno loro due a correre al sepolcro vuoto la mattina della risurrezione. Uno calmo e l’altro così agitato, ma così tanto vicini nella testimonianza. Nel medio evo si diceva che se Giovanni era l’apostolo che Gesù amava, Pietro era quello che amava di più Gesù. Giuda, il traditore, Leonardo lo inserisce dall’altra parte del tavolo rispetto all’iconografia tradizionale, anche lui è inserito nella Grazia tra Pietro e Giovanni, ma ha il viso scuro, torvo, non si vedono gli occhi, i lineamenti del volto sono costituiti da tratti interrotti, il suo profilo è brutto, sagomato dal forte accentuarsi delle curve della fronte, del naso e del mento; è l’unico a non essere illuminato. Le occhiaie sono profonde, lo sguardo è cupo e incattivito, teso a rivelare la tristezza e la delusione. È inserito in un triangolo scaleno, a sottolineare l’imperfezione del peccato. La sua mano sinistra scorre veloce verso il pane ma si ferma in uno scatto contratto. La destra stringe tra le mani il sacchetto contenente i denari del tradimento come a volersi rassicurare che proprio di quello  ha realmente bisogno e non del pane della Grazia. Nell’impeto della scena irrompe sul tavolo della Grazia con il gomito, simbolo di maleducazione e di spregio, rovescia il sale come colui che porta sfortuna. Ma è anche un rimando al Vangelo “voi siete il sale della terra” ma se il sale non sala più diventiamo cristiani tiepidi, insapori. Da sempre il sale è simbolo dell’alleanza di Dio con il suo popolo, qui viene sprecata, gettata via; è come se annullasse e rifiutasse per sé l’alleanza divina, disperdendo e vanificando quel dono che anche a lui era stato concesso.



  Veniamo ora ai due estremi della tavola. A sinistra troviamo Bartolomeo, Giacomo il minore e Andrea. Andrea, il più vicino a Pietro, di cui è fratello, si alza in piedi e alza le mani in un gesto di arresa, di colui che ha le mani pulite e vuote, che è libero. Vicino a lui troviamo Giacomo il minore, cugino di Gesù, e per ultimo Bartolomeo, il più lontano a tavola e colui che morirà più lontano di tutti, in India, cercando di portare il Vangelo. Indossa abiti romani senza essere romano, alcuni studiosi pensano che così Leonardo abbia voluto indicare la momentanea sconfitta del bene imprigionato da forze all’apparenza più forti, in attesa che a trionfare sia il Bene supremo nella stessa persona del Cristo. Dall’altro lato troviamo Matteo, Giuda Taddeo e Simone. Matteo, Levi, l’esattore delle tasse prima di essere chiamato da Gesù, è bello ed elegante; parla con le mani, quelle mani che prima contavano i soldi e che ora non hanno mai smesso di indicare il Signore e che utilizzerà per mettere per iscritto la Sua parola. Accanto Taddeo, le sue mani vengono rappresentate seguendo i gesti della retorica. Per ultimo il vecchio Simone lo zelota con appoggiato sul tavolo vicino a lui lo “sica” il coltellino dei sicari zeloti di cui, un tempo, ne faceva parte. Pubblicani, esattori, sicari….ma la salvezza donata è per tutti. Le mani di Simone ne raccontano il passato ma raccontano anche il miracolo della conversione del cuore, invitano alla calma, alla riflessione, all’Amore a cui abbandonarsi e donare la propria vita. Alla nuova aurora che sta sorgendo dietro a Gesù per cui si è condotti fuori dalle tenebre. Ma cos’è realmente il cenacolo? C’è chi lo ha paragonato all’onda del mare che si ritrae, si monta e travolge tutto quello che trova, come l’Amore gratuito di Dio, che è incontenibile. C’è anche chi ha provato a mettere in musica le suppellettili ed il pane sulla tavola scoprendo che corrispondono a note musicali, ad un requiem. È il mistero di Dio che si fa carne ogni volta realmente per ciascuno di noi e che si dona di un amore che non ha misura, come ricordava S. Agostino. Un Amore infinito che passa attraverso il dolore inumano della croce. Gesù, rendendo reale ed eterna la sua presenza nel pane e nel vino consacrandoli personalmente e ridonandoli a noi, fa’ del dono di Sé qualcosa di immensamente grande ed incalcolabile. Non si può capire l’ultima cena, l’eucarestia e la croce senza riconoscere prima il suo Amore senza limiti per ciascuno di noi.

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